Mi sveglio verso le 7, quando il conducente del pullman esclama al microfono «Good day, good people!» e annuncia che siamo in arrivo a Dunmarra, dove ci fermeremo per una pausa colazione di circa 50 minuti. Mi tolgo la mascherina: siamo ancora nel pieno outback, ma è l’alba, e le turbine a vento sono colpite da una luce morbida, rosa. E c’è un tizio seduto nei sedili poco più dietro dei miei (deve essere salito a una fermata intermedia mentre dormivo) che mi fissa. Decido di scendere. Scende anche lui e mi chiede se voglio un tè; lo ringrazio ma rifiuto. Non ho voglia di fare conversazione a quest’ora. Mi sciacquo la faccia nei bagni (puliti chirurgicamente) e mi dirigo verso l’inn, la locanda, per fare colazione.
Non c’è niente che mi ispiri, e nella vetrinetta infestata dalle mosche vedo per lo più pasticci di carne. Così ordino un tè e tiro fuori dal mio zaino dei biscotti che mi sono portata da Alice Springs. Sto per sedermi a uno dei tavoli quando un’altra passeggera vista sul pullman, una signora sui 70 anni con un enorme maglione giallo canarino e i capelli bianchi come una federa, mi chiama. Mi chiede di sedermi al tavolo con lei, ché non le piace fare colazione da sola. Come potrei dirle di no? Sfodero il mio migliore sorriso e mi preparo ad ascoltarla. Perché i nonni vogliono soltanto questo: qualcuno che li ascolti.
È originaria del Western Australia ma ha origini irlandesi. Suo marito Tim, invece, ha origini svizzere. Hanno due figlie: una vive vicino a loro in Western Australia, l’altra vive a Darwin, più o meno dalla parte opposta del continente. Entrambe hanno quattro figli.
Mi racconta che lei e Tim si sono occupati di stazioni come questa per tutta la vita, e hanno spesso lavorato con gli aborigeni. Lei sta viaggiando come me da Alice Springs, dove non era mai stata in vita sua, perché lì si è tenuta una importante conferenza delle comunità indigene, che hanno avanzato richieste sul loro riconoscimento e sulla loro presenza in Parlamento. Ora sta andando a Darwin a trovare la figlia: non la vede da un anno. L’ultima volta è stato quasi per caso. Lei e suo marito sono partiti in caravan dalla loro casa nel sud del Western Australia per andare a fare una vacanza a Broome, nel nord dello stesso Stato, a circa 2.200 km di distanza. Dopo 6 settimane di viaggio tra mare, pesca e canoa hanno pensato: «Ehi, siamo solo a 2.000 km da nostra figlia, perché non andiamo a trovarla?». Così sono partiti alla volta di Darwin.
Sono due dei tanti grey nomads, i nomadi grigi, che prendono il nome dal colore dei capelli. Sono i pensionati che, finito di lavorare, vendono o affittano la casa, prendono un camper e si mettono a girare l’Australia. Insomma, si godono la vita che si sono meritati.
I due genitori così sono arrivati a Darwin, e hanno attraversato i terreni della fattoria dei vicini della figlia, lungo una strada sterrata che non veniva battuta da mesi, per farle una sorpresa. La figlia ha sentito il rumore di un caravan in lontananza, è uscita e si è ritrovata i genitori nel cortile. Ha pianto – e lo avrei fatto anche io!
Mentre beviamo il tè mi chiede di dove sono, se ho un fidanzato e come si chiama, e perché non è qui con me. Finiamo a parlare della bellezza dell’Australia e di quanto sia sicuro questo posto. Mi dice che è un Paese benedetto da Dio ma che c’è ancora molto da fare per gli aborigeni. È evidente il legame forte che sente con loro, e infatti inizia a raccontarmi un’altra storia.
Tra le tante stazioni di sosta per i caravan di cui si sono occupati lei e il marito, una era a circa 500 km dal loro paese originario. Una sera si sono accorti che un gruppo di aborigeni aveva acceso un fuoco in una parte di terreno dove era vietato, così Tim è andato a chiedere di spegnerlo. Dopo un po’ l’uomo non tornava, così lei si è decisa a partire per a raggiungerlo. Quella sera era successo qualcosa di straordinario: mentre Tim aveva iniziato a parlare, uno degli aborigeni lo aveva guardato a lungo e osservandogli i piedi lo aveva riconosciuto. Era un uomo che, quarant’anni prima, aveva lavorato per lui nella prima stazione, e che era stato aiutato da Tim quando gli era venuta l’appendicite. Si erano ritrovati. Si erano messi a parlare dei vecchi tempi e delle altre conoscenze in comune. Quasi tutti erano morti, ma quell’uomo ora aveva figli e nipoti. E così Tim, sua moglie e il resto del gruppo poco dopo erano in macchina, a percorrere 500 km per andare a conoscere i nuovi membri di quella famiglia.
A questo punto del racconto la signora inizia a delirare su Dio, Israele, gli Australiani che hanno salvato la Terra Santa a cavallo. Io sorrido e cerco una via di fuga. Nel frattempo il tizio che mi fissava in pullman ci passa davanti e mi guarda come a dire: «Meno male che non volevi il tè».
Per fortuna il tè è finito ed è ora di risalire a bordo. La signora tossisce e mi dice che si sente un principio di raffreddore, così le do due caramelle al miele e alla vitamina C che avevo nello zaino. Torniamo sul veicolo e ci sorridiamo. Riparto riflettendo sulla serendipità. E sui ferventi religiosi che vedono la mano di Dio dietro ogni cosa. Il sole è già alto nel cielo. Ripartiamo e mi addormento subito.
Mi risveglio perché sento caldo. Dobbiamo aver passato il tropico, perché il sole è fortissimo. Sono le 9:30: mi accorgo di aver dormito, a intervalli, circa 12 ore. Il vero motivo per cui mi piace viaggiare lento è che stare sui veicoli mi concilia il sonno. Aerei, pullman, auto, barca. Tutto, tranne l’elicottero e il gommone. E più il viaggio è lungo e in luoghi remoti, più posso dormire senza il senso di colpa di dovere, a un certo punto, mettermi a rispondere a qualche email. Qui nell’outback non c’è campo e le 12 ore di sonno sono filate via in un attimo.
Con il caldo che fa, mi spoglio. Mi tolgo i leggings, il secondo paio di calze, la giacca, la felpa, la maglia di pile, il foulard, il telo mare che ho usato come coperta – come fanno i veri backpacker. Può sembrare che io arrivi dall’Antartide: venendo da un pullman con l’aria condizionata settata su livelli australiani è un po’ la stessa cosa.
Ci fermiamo in un paesino nel nulla, Mataranka, e scendo alla pompa di benzina per sgranchirmi le gambe. Fa caldissimo! Un’insegna mostra che nel bar vendono le «famous Mataranka pies». Eh già, proprio famose. Ma questo è il bello: basta crederci. E qui in Australia puoi effettivamente credere e dire quello che vuoi, troverai sempre qualcuno che con la cantilena altalenante ti risponderà: «okay, mate».
Ripartiamo e guardando fuori noto come il paesaggio sia cambiato. La terra è sempre rossa, ma non c’è più il bush costellato di arbusti bassi: ora vedo piante alte, verdi e rigogliose, e alberi di frangipane intervallati da termitai alti anche 2 metri. L’Australia è così: splendida e sempre pronta a ricordarti le simpatiche creature che la abitano.
Lungo la strada affianchiamo il Ghan, il leggendario treno che attraversa l’Australia da sud a nord, da Adelaide a Darwin, in 2 giorni di viaggio.
È costosissimo, ma vuoi mettere che esperienza? Prima o poi lo farò. E farò anche un viaggio sull’Indian Pacific, l’altra linea ferroviaria che attraversa l’isola da est a ovest, congiungendo i due oceani omonimi. Sono al mio terzo viaggio in Australia e nella mia testa ne sto già pianificando altri due.
Molto bene.